‘E ll’ürdeme rø.

Ci sono tanti metodi per definire il concetto di consumismo, e la pubblicità ne rappresenta la base più profonda e solida. Ci sono e ci sono state persone, nel vecchio sciocco mondo là fuori, che con una buona idea per vendere qualcosa hanno pagato l’Università ai figli, a quelli delle loro amanti o, peggio, a quelli dei loro psichiatri quando non hanno retto più la pressione. Tutto é pubblicizzato e pubblicizzabile, e anche quando la comunicazione di massa era, al massimo, un mercante loquace seduto tra sconosciuti davanti al fuoco, il concetto principe della pubblicità era congiungere, traendo profitto, i bisogni del prossimo con i miei beni o servizi. Facendo un esempio spiccio, il livello zero della pubblicità é il fruttivendolo alla cantonata che dice Vendo pere!
Succede però che due fruttivendoli vendono entrambi pere sulla stessa strada (e puoi star certo che non si divideranno mai i clienti); qui entra in gioco il secondo parametro, la valorizzazione del prodotto: ovvero Vendo pere belle!
La valorizzazione fa ancora parte di un ragionamento tutto sommato onesto; non c’è niente di male se chi produce o vende qualcosa pensi, in buonafede, che il suo prodotto sia migliore degli altri, secondo uno o tutti i punti di vista. Questo tipo di discorso però, é ancora valido finché il bene o il servizio offerto non sia prodotto in grande scala o comunque in elevata disponibilità dei clienti (e in qualche modo oggi lo si rimette ostentatamente in gioco anche nelle grandi produzioni, per rafforzare il binomio tradizionale=buono). Quindi, in questo semplice mercato, abbiamo tutti la nostra bella pera da sgranocchiare, e ne abbiamo a sazietà. Ciò significa che il fruttivendolo, finché saremo sazî di pere, non riuscirà a venderne; ciononostante, visto che ha comprato un container intero di pere per far fronte ad una previsione di mercato in crescita, non può permettersi di farle marcire, e passa al livello più raffinato e (onestamente) più subdolo della pubblicità: la suggestione. Se prima era il prodotto ad assecondare il bisogno, ora si gioca a parti invertite, creando il bisogno affinché aumenti la richiesta. E chi tra i miei cari ed ingenui mangiatori di pere, resisterebbe al bisogno di mangiarne altre se, con tutta l’onestà del mondo, il vostro fruttivendolo vi dicesse che mangiare pere rende più fighi? Insomma, vi siete spinti fino ad eleggerlo a vostro fruttivendolo di fiducia, come potete non fidarvi di un uomo che tanto gentile e tanto onesto pare?
La pubblicità, dai tempi avventurosi dei carovanieri scaltri ai nostri di tranquillo caos, ha seguito tutte queste fasi; anzi, considerando che siamo abituati a desiderare qualcosa solo perché ne avvertiamo la mancanza più che il bisogno (e secondo me sono decenni che Pavlov non paga da bere in paradiso), la pubblicità ha potuto permettersi di ritornare sui suoi passi; un vecchio saggio ci tenne a precisare, facendo zapping, che si potrebbe riassumere ogni pubblicità con compra, stronzo!
Su, dategli torto. Non vi chiedo nemmeno di accendere la TV, aprite una decina di video a caso su YouTube e osservate con attenzione le pubblicità. Non c’è un discorso strutturato, in quello che state guardando; e se anche ci fosse Henry Ford al marketing, che cazzo di messaggio potrebbe ficcare per convincere qualcuno a comprare auto sportive o assorbenti interni, in quei fatidici cinque secondi che non potete skippare? Bravi. Nessuno. La suggestione é già dentro il cliente, perché spendere inutilmente tempo per richiamarla?

Tutto ‘sto pippone prosopopeico perché: svolgimento.

Pochi giorni fa sono stato al Comicon. Me ne avevano sempre parlato bene ma non ero mai riuscito ad incastrare un giorno di ferie vere, e non quelli in cui ti svegli alle sette del mattino perché hai talmente tanti lavori in casa arretrati che alle due del pomeriggio smadonni per non essere andato al lavoro. Comunque, arrivo con il mio bravo biglietto e inizio a girare tra gli stand. Resto perplesso: a parte le due mostre – curate da una mano tutto sommato amorevole e preparata – c’è un padiglione in cui si accavallano trecentomila stand, tra fumetterie, case editrici, vendita al dettaglio di munnezzelle kawaii sparse (a prezzi che per i restanti 364 giorni susciterebbe acquazzoni di chitammuorti) e un paio di furbi contrabbandieri di paccottiglie forse macedoni. Certo, all’occhio fa anche piacere, come si dice… fa ricchezza, vedere banchi straboccanti di merce da un lato e di clientela dall’altro. La perplessità radica nel padiglione di ingresso: in ogni angolo un megastand di, nell’ordine: informatica, telefonia, informatica e… giochi di ruolo. Ovviamente online. C’è una certa folla, ma a seguire il gioco sono davvero pochi.
La maggioranza dei ragazzini che cercano di cavarsi gli occhi per arrivare alla transenna é lì per i commentatori: uno scheletro che indossa la pelle di Naike Rivelli, scalza e con (per dirla alla Marziano) ‘na voce ‘e cazzo un pò settentrionale; due tizi di un metro e cinquanta + settanta centimetri di banana in testa; un chiodo con le braccine tatuate e il cappello con le borchie. Vabbuò.
A un certo punto tutti scappano via, verso il teatro dove altri duecentomila ragazzini si menano per entrare. Numero chiuso dicono, solo 1500 pass esclusivi. E dove si prendono? Alzata di spalle: c’era da fare il concorso alla (segue nome operatore telefonico con il megastand), che significa passare a quell’operatore telefonico. Pischelli in lacrime perché papà e mammà non hanno voluto cambiare il numero: QUELLI NON VERRANNO MAI PIÙ QUI!.
E tornano a Napoli neanche dieci giorni dopo, casualmente in un noto franchising di abbigliamento sportivo.

Sorrido, pensando a Maria ‘a tuppessa che, nella sua concreta e vitale ignoranza, iniziava il giro della riffa nel mercato alle sei del mattino, usando un’ingenua suggestione: ‘E ll’ürdeme rø, gli ultimi due; non vincerai, e se lo farai la vincita sarà minima, ma sono gli ultimi due, quindi compra, stronzo.

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